La generazione rubata
(Rabbit proof fence)

di Jenny Rowley e Liliana Belletti



Lo sguardo profondo e intenso di Molly, la protagonista
del film
La generazione rubata,
che fissa l’orizzonte sconfinato del deserto australiano,
vale da solo una visita al cinema.


La pratica di strappare bambini/e “mezzosangue” alle loro madri e alle loro comunità è continuata fino agli anni ’70 e ha coinvolto circa 30.000 persone. Un genocidio culturale, perché, una volta diventati adulti, questi giovani avevano perso la lingua, la cultura, le radici, i legami col loro popolo. Non più aborigeni, mai integrati veramente nella comunità bianca, stranieri nella loro terra. E’ un episodio vergognoso di cui anche in Australia ancora si sa troppo poco e che è stato portato alla luce recentemente da alcuni libri (“La mia Australia” di Sally Morgan e “Follow the rabbit proof fence” di Doris Pilkington, la figlia della protagonista del film).


Molly, Daisy e Gracie percorrono il rosso deserto del Western Australia e il film con i loro neri occhi sgranati e alla fine anche noi vediamo attraverso di loro l’assurdità del mondo dei bianchi, ne avvertiamo la inutile cattiveria, tanto più insopportabile perché ammantata di buone maniere e buone intenzioni. Le bambine, la più grande soprattutto, sanno come procurarsi il cibo, come trovare l’acqua, come non perdere la strada (seguiranno il recinto, lungo migliaia di chilometri che doveva tener fuori i conigli dalle terre coltivate, da qui il titolo originale). Sanno anche come trovare la forza per andare avanti anche quando sembra non ci sia più speranza.


Dall’altra parte il “protettore” degli aborigeni (interpretato dall’attore inglese Kenneth Branagh), la polizia, le autorità locali danno loro la caccia, quasi come fossero loro i conigli da catturare e da riportare dentro confini stabiliti.

Il film vive dei bellissimi paesaggi, della presenza carismatica della protagonista, della bella idea di partenza. Se all’inizio il regista (Philip Noyce, reduce da un decennio hollywoodiano non proprio edificante) non avesse troppa fretta di portarci via dalla piccola località di Jigalong e dalla sua comunità matrilineare, si sarebbe potuto capire qualcosa di più sulla cultura aborigena, così profondamente in armonia con i ritmi della natura e così misconosciuta. Nel modo di presentare il contrasto tra i due mondi c’è qualcosa di troppo didascalico, di troppo prevedibile, che fa di “Generazione rubata” non il capolavoro che avrebbe potuto essere, ma comunque un prodotto interessante, da non perdere.